ALESSANDRA GIACOPINI
Based in Paris, FR


I believe in the exchange of ideas, in sharing creativity and kindness.

Together with a background in arts management and in curatorial practices, I have experience in organizing, communicating, and promoting contemporary art events.
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My research focuses on the emotional interplay of the human condition and on the multiple possibilities of interconnecion of the contemporary beings. I am interested in socially & politically engaged practices and collective care, within the wide social landscape that characterizes our era. Mostly, I try to capture what is affecting our approcheas to the others and the traumas connected to our perception of the history.
05 LUMACHETTE

MORTE AGLI EXTRA!
Text by Alessandra Giacopini
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Che vita misera!

È quello che ho pensato stasera mentre lavavo i piatti nella mia kitchenette di 4mq a Parigi.

Persa tra i pensieri, immaginavo le mie amiche ricche, o forse no, meglio dire benestanti – insomma quelle che non navigano nell’oro ma che non vivono nemmeno di stenti. Quelle rimaste nella mia città natale, il nido che ho lasciato da anni e dove, il più delle volte, spero di non dover tornare.
Loro sono le amiche che se la godono [la vita], perché i piatti non li lavano a mano. No, loro hanno la lavastoviglie.

Anche io la vorrei la lavastoviglie. Non saprei dove metterla, certo, nella mia kitchenette a misura di formica. Lì c’è già la lavatrice, che occupa un terzo dello spazio. Poi il frigo, abbastanza grande — lo ammetto — che ne prende un altro terzo. Il forno? Non pervenuto. Al suo posto, un mini forno elettrico. Fa il suo dovere. Ho anche un cuoci riso, minuscolo, giusto per una monoporzione. Non sia mai che occupi altro spazio prezioso.

La mia vita appare misera sempre più spesso. Superati ormai i trenta, a metà strada verso i 40, mi rattristo per le piccole cose, per quegli extra che non posso ancora permettermi. Perché vivere a Parigi costa. Tanto. Soprattutto se il tuo lavoro non è pagato poi un granché.

A tal proposito, mentre stasera lavavo i piatti, mi son ben assicurata di usare solamente l’acqua fredda, nonostante i zero gradi fuori e le mani congelate. Non si spreca l’acqua calda, persino quella costa un occhio della testa.

Anche il supermercato è diventato un luogo di depressione, perché per lo più faccio compere in quello economico, dove è tutto in disordine e per questo si paga meno. Per arrivarci supero due o tre Biocoop, in cui distese di verdure fresche, colorate e profumate mi sorridono felici. Anche le persone che ne escono sono sorridenti. Ovviamente, chi diceva che i soldi non fanno la felicità si sbagliava. Io invece allungo il passo per superarli velocemente, cercando di distogliere lo sguardo, quasi imbarazzata perché faccio parte di quel gruppo che la spesa la fa lì accanto, nel supermercato cheap. Non appena entro, sento subito l’aria pesante, accompagnata da una sensazione di prodotti un po’ scadenti, e industriali. All’interno anche il design è triste. Le pareti hanno un colorito giallo malaticcio, i prodotti sono così lucidi e probabilmente pesticizzati da sembrare finti, e le persone hanno gli sguardi spenti e affaticati. In questo mondo che non voglio abitare, mi muovo velocemente e, non guardando in faccia nessuno, cerco di uscire da quest’incubo il più in fretta possibile.

A inizio anno, mi sono finalmente iscritta in palestra, quella con sconti enormi per i nuovi membri, tipo “0 euro per i primi due mesi” e poi 35 euro al mese se non fai i corsi. A Parigi prezzi così bassi non li si trova facilmente. Ebbene, sono davvero orgogliosa di me stessa, perché, nonostante io odi la palestra, sono riuscita a mettere da parte il mio disprezzo per questo posto, scegliendo di fare qualcosa di buono per la mia salute. Questo è un pensiero che, da adolescente, non ti attraverserebbe mai la mente. Ma quando arrivi a un’età più matura, diventa difficile ignorarlo.

Comunque, la palestra inizialmente mi ha dato una botta di vita. Fino a quando ho realizzato che il piano con l’istruttore non era compreso nel prezzo e che un semplice consulto mi sarebbe costato altri 69 euro. Eccolo lì, l’extra che non avevo messo in conto, che non posso di nuovo permettermi. È ridicolo, lo so. Ma mi convinco che quei soldi potrei spenderli meglio. Magari per migliorare la mia vita sociale, che è piuttosto misera anche quella.

Mi sento molto Houellebecq che, con i suoi racconti aspri ma onesti, racconta le derive di una vita spietata, cruda e spesso infelice.

Eppure subito dopo aver pensato “Che vita misera!”, mi sono chiesta: “o forse, la mia, è una vita libera?”

Una valanga di altre domande ha immediatamente fatto seguito. 

“Sono libera dagli schemi sociali? Dalle aspettative, dai risultati da raggiungere, dalle abitudini che ci impongono? Sono forse libera dai traguardi prestabiliti, da un futuro già scritto, dai sogni convenzionali che dovrei inseguire?”

Che dilemmi vertiginosi possono nascere. Se poi mettono le radici diventa difficile estirparli.

Mi chiedo cosa sia la libertà, se non la facoltà di scegliere una vita appagante, se non la consapevolezza di poter decidere del proprio tempo. Quando subiamo un ritmo imposto, un lavoro che ci prosciuga, un risultato sperato, siamo vittime della società e dei suoi dogmi, così come delle aspettative altrui.

Mi chiedo se esiste una libertà che sia slegata dall’aspetto economico, che sia diritto universale e non un privilegio per pochi. Essere liberi, in un senso più profondo e radicato, può esistere quando non si è economicamente autosufficienti? 
La dipendenza affettiva, finanziaria, sociale, è in fin dei conti un ostacolo alla propria libertà in senso lato. È possibile sentirsi liberi mentre si dipende da un sistema che ci impone di lavorare per sopravvivere?

In un certo senso, io ora esisto libera a Parigi, perché sono padrona del mio tempo. Libera da un lavoro che non mi appaga, libera da orari di ufficio soffocanti, libera di passare un'intera giornata a leggere, o a studiare, per progettare, inventare, ampliare la mente. Questa versione di me non potrebbe esistere in un altro luogo o in un altro tempo, ma solo qui ed ora.

Ho raggiunto questa libertà quando ho lasciato un lavoro stancante, e ora sono libera di riprogettarmi, di rinascere, di rimediare agli errori passati, di guardare altrove, di cambiare atteggiamento, di ritrovare me stessa, di capirmi. Ma economicamente non sono libera. 

Trovo questo un fatto assai crudele, perché sempre più spesso siamo chiamati a scegliere tra un tipo di libertà o l’altra, e non ci è data nessuna opzione intermedia, non una minima possibilità di posizionarsi lì nel mezzo, di trovare un equilibrio.

Nella mia presunta quasi-libertà, rifletto sulle teorie di Lauren Berlant che, nel suo ultimo libro Cruel Optimism, pubblicato lo scorso anno e tradotto in italiano dalla casa editrice Timeo, porta alla luce una verità assoluta: siamo ostinatamente legati a un ottimismo che l’autrice definisce ‘crudele’. Si tratta di quella condizione in cui continuiamo ad aggrapparci a certe aspirazioni perché sembrano offrirci possibilità di miglioramento, ma proprio questa fedeltà ci imprigiona in situazioni che ci logorano o ci privano di alternative più autentiche.

L’ottimismo crudele riguarda il legame affettivo che sviluppiamo con oggetti, sogni o progetti che, pur promettendoci realizzazione e felicità, finiscono per danneggiarci o per mantenere in vita condizioni di sofferenza. Non è solo il fatto di inseguire un obiettivo con ostinazione a essere problematico, ma il modo in cui certi sistemi sociali ed economici ci portano a investire emotivamente in percorsi che, in realtà, ostacolano il nostro benessere.

È il sogno che inseguiamo ostinatamente, convinti che ci porterà alla felicità, mentre ci stringe in una morsa invisibile, impedendoci di vedere altre strade, forse più vere, forse più nostre. Non è solo il desiderio di raggiungere un obiettivo a trattenerci, ma il modo in cui il mondo intorno a noi ci insegna a desiderarlo, a investire speranze, tempo e vita in percorsi che, invece di liberarci, ci consumano. 

Io mi sento esattamente così, legata a un sogno di realizzazione personale che inseguo ostinatamente in quanto specchio della posizione che vorrei arrivare ad avere nella società, ma immancabilmente più cerco di raggiungerlo più mi allontano, mi perdo in strade diverse, secondarie, a volte a senso unico. Si scopre un senso di frustrazione densa e radicale, che non ha né capo né coda.

Dovremmo allora abbandonare tutto? Svuotarci? Affidarci solo a pratiche spirituali liberatorie, alla meditazione?

No. La meditazione, lo yoga, la palestra non mi salveranno.

Forse potrebbe farlo la terapia.

Ma anche quella è un extra che per ora non posso permettermi.





 




 
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